Quali requisiti deve avere un marchio per poter essere registrato?

Un marchio può ottenere la registrazione se dotato di alcuni specifici requisiti:

1) novità

2) capacità distintiva

3) liceità

Novità del marchio

Il requisito della novità è previsto dall’articolo 12 C.p.i.. La norma è formulata in negativo e specifica quando un marchio NON è nuovo.

Un marchio non ha il requisito quando:

  1. consiste in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio (volgarizzazione o standardizzazione del marchio);
  2. sia identico o simile ad un segno già noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
  3. sia identici o simile a un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio aziendale, adottato da altri, se a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra l’attività d’impresa da questi esercitata ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni (l’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità quindi si può registrare un marchio non noto precedentemente usato da altri);
  4. sia identico ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorità o di una valida rivendicazione di preesistenza, per prodotti o servizi identici;e. sia identico o simili ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorità o di una valida rivendicazione di preesistenza, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni o fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
  5. sia identico o simile ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorità o di una valida rivendicazione di preesistenza, per prodotti o servizi anche non affini, quando il marchio anteriore goda nella Comunità Europea, se comunitario, o nello Stato, di rinomanza e quando l’uso di quello successivo senza giusto motivo trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi;g. sia identico o simile ad un marchio già notoriamente conosciuto ai sensi dell’articolo 6-bis della Convenzione di Unione di Parigi per la proprietà industriale, per prodotti o servizi anche non affini, quando ricorrono le condizioni di cui alla lettera f);

 

  1. nei casi di cui alle lettere d) ed e), non toglie la novità il marchio anteriore che sia scaduto da oltre due anni, ovvero tre se si tratta di un marchio collettivo, o possa considerarsi decaduto per non uso al momento della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità.

Prima di registrare un marchio, per non incorrere nella sua nullità, occorre svolgere la cosiddetta ricerca di anteriorità al fine di individuare eventuali marchi uguali o simili per la stessa tipologia di prodotti.

La ricerca si fa mediante banche dati gratuite o anche a pagamento.

Ad esempio la banca dati dei marchi italiani, utile per svolgere la ricerca di uno specifico marchio o di marchi in generale, è raggiungibile a questo link: UIBM – Ricerca Marchi.

 

Capacità distintiva del marchio

Per poter essere oggetto di registrazione il marchio deve avere capacità distintivia.

In base all’art. 13 C.p.i. “Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare:

  1. a) quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;
  2. b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio.

 In deroga al comma 1 possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo.

Il marchio non può essere dichiarato o considerato nullo se prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità, il segno che ne forma oggetto, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo.

Il marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva” (cd volgarizzazione del marchio).

Quindi non possono costituire oggetto di registrazione i segni privi di carattere distintivo, il marchio, infatti, deve avere la capacità di distinguere un prodotto da quello della concorrenza dello stesso genere presenti sul mercato e la sua registrazione non può finire per creare un monopolio di diciture di uso comune.

Liceità del marchio

Il requisito della liceità del marchio è previsto dall’art. 14 C.p.i. che prevede tutta una serie di limiti alla registrazione dei marchi ritenuti illeciti.

Ad esempio “Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa:

  1. a) i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume;
  2. b) i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi;
  3. c) i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi.

E’ vietata l’utilizzazione di bandiere e stemmi di Stati o segni confondibili con altri protetti da convenzioni internazionali (ad esempio l’emblema della croce rossa o il simbolo olimpico).

 

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Come si fa per diventare titolari di un diritto esclusivo su un marchio? Cioè come si fa divenire “proprietari” di un marchio avente tutela di esclusività dall’ordinamento? E quanto dura la tutela?

La titolarità di tutti i diritti di esclusiva su di un determinato marchio – ciò che può far dire di essere “titolari o proprietari di un marchio” – si acquisisce con la sua registrazione.

La registrazione del marchio italiano si ottiene attraverso una complessa procedura che si svolge all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM).

Il processo di registrazione si avvia mediante deposito di una specifica e complessa domanda che può essere presentata sia all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi sia alle Camere di Commercio.

La domanda di registrazione deve contenere:

– l’indicazione del richiedente;

– l’eventuale rivendicazione di priorità;

– la riproduzione del marchio;

– l’indicazione del genere di prodotti o servizio che vuole contraddistinguere.

La domanda di registrazione può avere ad oggetto un solo marchio ed al momento della presentazione occorre depositare il modello in cui vengono indicati:

– la descrizione dettagliata del marchio;

– l’elenco completo dei prodotti e servizi che contraddistingue con l’indicazione della classe a cui appartengono (si usa la Classificazione di Nizza);

– l’esemplare tipografico del marchio;

– l’attestazione di pagamento delle concessioni governative.

Una volta depositata la domanda, questa viene sottoposta ad un attento esame da parte del UIBM che controlla che il marchio risponda a tutti i requisiti di legge per la sua registrazione.

Poiché tali requisiti sono molteplici, appare prudente ed opportuno che per la registrazione del marchio – ossia per la redazione della domanda e per la corretta esecuzione di tutta la procedura di registrazione – ci si avvalga di un esperto il quale sarà in grado di consigliare per il meglio l’interessato ed evitargli molteplici problemi, sia in fase di registrazione, sia successivamente.

Infatti, in fase di registrazione si può incorrere sia nel respingimento della domanda di registrazione, sia nell’opposizione di terzi alla domanda.

In questo secondo caso si apre un procedimento amministrativo avanti all’UIBM durante il quale vi è uno scambio di atti “difensivi” contenenti osservazioni e corredati da documentazione.

La procedura si conclude con un provvedimento di accoglimento o rigetto dell’opposizione.

Questo per significare che la semplicità della procedura di registrazione è solo apparente e può tratteggiarsi tale solo ad un occhio inesperto. In realtà si tratta di una procedura molto “tecnica” e molto complessa.

Dopo la registrazione il diritto di tutela e di esclusività sul marchio dura per 10 anni e può essere rinnovato ad ogni scadenza.

 

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Che differenza c’è tra un marchio individuale e un marchio collettivo?

I marchi individuali e i marchio collettivi assolvono ad una diversa funzione.

I marchi individuali hanno la funzione di distinguere la produzione o la commercializzazione di prodotti e servizi riconducendoli ad un imprenditore piuttosto che a un altro.

I marchi collettivi invece hanno la funzione di garantire la qualità, l’origine e la natura di un prodotto o di un servizio. In questi casi al momento del deposito della domanda di registrazione del marchio collettivo viene sempre depositato anche il regolamento contenente i principi e le regole per la concessione in licenza d’uso del medesimo.

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Quali tipi di marchi si possono registrare?

Secondo l’art. 7 del codice della proprietà industriale “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i nuovi segni, in particolare le parole, compresi in nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti:

  1. a) a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese; e
  2. b) a essere rappresentati nel registro in modo tale da consentire alle autorità competenti e al pubblico di determinare con chiarezza e precisione l’oggetto della protezione conferita al titolare.

Sostanzialmente, dunque, sono registrabili i seguenti tipi di marchi.

Marchio denominativo: è costituito da sole parole. Se il marchio denominativo è complesso, come ad esempio il marchio Coca-Cola, la tutela si deve ritenere estesa a tutti gli elementi distintivi del segno, quindi anche la riproduzione di una sua parte (ad esempio Coca) potrebbe violare i diritti di privativa, soprattutto in caso di marchi forti come quello in esempio. Un esempio di marchio denominativo è “Yahoo”

Marchio figurativo o emblematico: è quello costituito esclusivamente da figure, lettere o numeri. Anche una singola lettera se ha una caratterizzazione grafica particolare che gli doni capacità distintiva (Cass. Civ., Sez. 1, 11.10.2002 n. 14483). Un esempio di marchio figurativo può essere la mela di “Apple” o il numero “46” di Valentino Rossi.

                                                  

 

Marchio misto: risulta dalla combinazione di parole e figure. Un esempio di marchio misto è quello del WWF costituito appunto dalla scritta e dal panda.

 

Marchio di forma: sono detti anche “tridimensionali” e sono i marchi costituiti dalla forma del prodotto o dalla forma della sua confezione. Un esempio di questo tipo è il famoso “Toblerone”, ossia la stecca di cioccolata triangolare sia nella forma del prodotto che in quello della confezione.

 

Qui abbiamo dei limiti, infatti non possono essere registrati come tali i segni costituiti dalla forma imposta dalla natura del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico o dalla forma che dà valore sostanziale al prodotto”. Ad esempio non sono stati ammessi alla tutela della registrazioni bottiglie senza caratterizzazione tale da essere distintiva, sul presupposto che i liquidi devono necessariamente essere contenuti in involucri e sarebbe stato troppo limitativo ed esclusivo tutelare un involucro senza un forte carattere distintivo, come ad esempio la bottiglietta della Coca-Cola.

Marchio di colore: è ammessa la registrazione di marchi consistenti in combinazione di colori o tonalità cromatiche che conferiscano carattere distintivo al prodotto, identificandolo e distinguendolo dagli altri. La capacità distintiva viene acquisita tramite l’uso del marchio quando nel pubblico viene riconosciuta l’associazione tra prodotto e colore, se si tratta di uno specifico colore.

La registrazione di un colore specifico come marchio, è ammessa solo quando non restringe indebitamente la disponibilità di colori per gli altri soggetti che offrono prodotti o servizi dello stesso genere di quello oggetto della domanda di registrazione.

I colori puri, cioè i colori che non hanno variazioni, non possono essere registrati, salvo casi eccezionali, ossia casi in cui, appunto, vi è un forte riconoscimento dal pubblico. Esempi di questo tipo possono essere il colore “verde” Tiffany o il “rosso” Louboutin.

                                                                                

 

Marchio di suono: può costituire oggetto di registrazione come marchio anche un particolare suono. La registrazione avviene mediante rappresentazione del suono come melodia su un pentagramma. Ne sono degli esempio il suono di accensione di un “Mec” o quello di un sistema Windows.

Marchio olfattivo: anche gli aromi e gli odori possono essere oggetto di registrazione.

Marchio Patronimico: è possibile registrare come marchio denominativo un segno costituito da un nome anagrafico. L’effetto della registrazione è quello che neppure la persona che porta quel nome può utilizzare il medesimo in settori merceologici identici o affini. Addirittura in casi analoghi la Corte di Cassazione (sentenza Sez. I, 14 marzo 2014 n. 6021) ha spiegato che “il diritto al nome, se non una vera e propria elisione, trova una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale, laddove esso sia divenuto oggetto di registrazione, prima, e di notorietà dopo, a opera dello stesso creativo che poi l’abbia ceduto ad altri”.  Secondo l’art. 8 del codice della proprietà industriale e intellettuale, i nomi notori possono essere registrati o usati come marchio solo dall’avente diritto o con il suo consenso o con il consenso dei soggetti indicati dalla norma.

Ritratti di persone: possono essere oggetto di registrazione (come marchio figurativo) i ritratti delle persone, purché se ne abbia la loro autorizzazione o quella degli eredi (coniuge e figli, in loro mancanza ascendenti o discendenti e in mancanza anche di questi dei parenti entro il quarto grado incluso).

 

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Perché registrare un marchio? Che diritti ha il titolare del marchio verso i terzi?

Attraverso la registrazione del marchio, in base all’art. 2569 c.c. e l’art. 20 del codice della proprietà industriale, si acquisisce il diritto di esclusività:

chi ha registrato nelle forme stabilite dalla legge un nuovo marchio idoneo a distinguere prodotti o servizi ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato” (art. 2569 c.c.);

i diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di far uso esclusivo del marchio

Ecco in cosa consiste questo diritto.

In sostanza il titolare ha il diritto di vietare a terzi di usare:

  1. a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui il marchio è stato registrato;
  2. b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se, a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
  3. c) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi non affini, se il marchio registrato goda nello Stato di rinomanza e se l’uso del segno, anche a fini diversi di quello di contraddistinguere i prodotti e servizi, senza giusto motivo, consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio oppure reca pregiudizio agli stessi.

In particolare, il titolare del marchio può vietare ai terzi:

  1. a) di apporre il segno sui prodotti o sulle loro confezioni o sugli imballaggi;
  2. b) di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire i servizi contraddistinti dal segno;
  3. c) di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno stesso;
  4. d) di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità;
  5. e) di apporre il segno su confezioni, imballaggi, etichette, cartellini, dispositivi di sicurezza o autenticazione o componenti degli stessi o su altri mezzi su cui il marchio può essere apposto;
  6. f) di offrire, immettere in commercio, detenere a tali fini, importare o esportare tali mezzi recanti il marchio, quando vi sia il rischio che gli stessi possano essere usati in attività costituenti violazione dei diritti del titolare.

E’ chiaro, dunque, che la ragione principale per registrare il marchio è quella di tutelare l’unicità e la riconoscibilità sul mercato dei nostri prodotti o servizi, impedendo a chiunque altro di utilizzare il nostro segno distintivo.

Rimandare la registrazione del proprio marchio è una pratica pericolosissima per il proprio business perché ci si espone al pericolo che chiunque altro possa registrare il marchio, o anche semplicemente un nome a dominio, anticipandoci ed impedendoci di utilizzarlo.

Mai rimandare la registrazione del proprio marchio.

Il nostro consiglio: appena hai un’idea di business registra subito marchio e dominio.

 

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Cos’è il marchio?

Il mercato oggi è sempre più complesso e in un mare magnum di prodotto e servizi è indispensabile distinguersi.

Prima di ogni cosa, dunque, è importante conoscere gli strumenti per distinguersi nel mercato.

Il marchio, dunque, è innanzitutto uno strumento per distinguersi sul mercato.

Per capire esattamente cos’è il marchio e perché esistono norme – anche molto complesse – che regolano la materia, occorre sapere che per il nostro ordinamento è importante che la concorrenza fra gli operatori di mercato si svolga correttamente.

Per questo motivo il consumatore deve poter distinguere un’azienda dall’altra, un prodotto o un servizio dagli altri, anche per attribuirgli meriti o demeriti.

Per distinguere tra loro gli operatori del mercato esistono nell’ordinamento i segni distintivi.

Il marchio è il segno distintivo dei prodotti e/o dei servizi di un’azienda.

E’ ciò che permette di rendere riconoscibili nel mercato i prodotti e i servizi dell’impresa.

Con il proprio marchio l’imprenditore si fa conoscere e “valutare” dal consumatore in un sistema concorrenziale.

 

Quali sono le funzioni del marchio?

Il marchio ha essenzialmente tre funzioni: distintiva, attrattiva e di indicazione della provenienza.

Funzione distintiva: è la più importante e consiste nella capacità di distinguere un prodotto o un servizio dagli altri. Ciò giustifica il monopoli, ossia i diritti di esclusività che con la registrazione si acquisiscono sul marchio, ma di questo ne riparleremo.

E’ talmente importante questa funzione che quando un segno è privo di distintività non può essere registrato come marchio.

Funzione attrattiva (o pubblicitaria): mira a fare del marchio una sorta di qualità del prodotto, verso il quale convogliare, attraverso la pubblicità o altri mezzi, le attenzioni del pubblico.

Un tempo la funzione attrattiva era riservata ai soli marchi celebri. Oggi la questione appare superata anche se i marchi celebri godono di una tutela “ultramerceologica”.

Ad esempio il marchio “Armani” non può essere utilizzato dai terzi neppure per individuare prodotti diversi da quelli dal celebre marchio di moda.

Funzione di indicazione della provenienza: al marchio si attribuisce anche la funzione di indicare la provenienza del prodotto legandolo all’imprenditore che ne è titolare.

Anche se oggi la funzione è molto ridimensionata essendo ammesse deroghe al principio, come ad esempio la possibilità di cedere il marchio separatamente dall’azienda. Inoltre, attraverso la “licenza d’uso non esclusiva” più aziende possono utilizzare lo stesso marchio.

 

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Cos’è l’onere della prova?

L’onere della prova è uno dei principi fondamentali da tenere presente quando ci si approccia a far valere i propri diritti davanti al Tribunale o ad altra autorità giudiziaria.

E’ il principio dettato dall’ 2697 c.c. per cui

«Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda».

Il primo periodo si riferisce a chi si rivolge all’autorità giudiziaria per primo al fine di far valere il proprio diritto (ad esempio l’attore o il ricorrente), mentre il secondo periodo si rivolge alla controparte (il convenuto oppure il resistente).

 

Onere della prova per l’attore o il ricorrente

Chi si rivolge al Giudice per far valere i propri diritti, ad esempio per chiedere la consegna di un bene, il pagamento di un credito, l’accertamento di una certa situazione l’acquisto della proprietà per usucapione, non deve solo dichiarare di avere quel diritto descrivendo i fatti su cui si fonda la sua domanda.

Egli – se vuole ottenere ragione da parte del Giudice e vuole ottenere una sentenza che accertata la fondatezza del suo diritto condanni l’altra parte, ad esempio, a consegnare un bene, pagare una somma di denaro ecc. –  deve anche dimostrare l’esistenza e la veridicità di quei fatti.

Più precisamente l’attore deve dimostrare:

che il suo diritto esiste;

che c’è stato un comportamento illecito di un altro soggetto;

che questo comportamento illecito ha leso il suo diritto.

Le prove sono quindi la parte essenziale del diritto civile e la causa è vinta solo se si riesce a dare al Giudice ciò che ad esso serve per darci ragione: la prova di tutto ciò che sosteniamo!

Le prove devono essere fornite dalla parte. Ad esempio, se voglio ottenere il pagamento di un credito per una fornitura di merce devo fornire la prova, affermando di non essere stato pagato:

– che c’era un contratto di fornitura;

– che ho consegnato la merce;

Il Giudice non può compensare le carenze di prove della parte, dunque anche se in animo suo può anche credergli, se la parte non prova il suo diritto non potrà mai dargli ragione.

 

Onere della prova per il convenuto

Il convenuto (o il resistente) si trova nella situazione inversa: egli deve dimostrare che il diritto che viene affermato e provato dall’attore si è modificato o estinto.

Ad esempio, se l’attore chiede il pagamento di una fornitura il convenuto dovrà dimostrare con la quietanza l’avvenuto pagamento (fatto estintivo del diritto dell’attore) oppure che quella merce aveva avuto dei vizi o dei difetti (fatto modificativo), che questi erano stati denunciati per tempo e, pertanto, che quelle somme non sono dovute o non sono dovute nella misura richiesta da controparte.

Il processo civile quindi funziona come un gioco di affermazioni e controaffermazioni in cui vince chi si è comportato in maniera conforme al diritto ed è riuscito a dimostrare quanto sostiene essere avvenuto!

Per questo dico sempre che nella conduzione della tua azienda o della tua vita devi pensare come un giudice, quindi devi sapere i fondamenti di diritto che regolano la tua attività, ti ci devi attenere e devi predisporre tutta la documentazione che attesta ciò che avviene.

In questo modo avrai sempre ragione.

Esistono situazioni in cui l’onere della prova segue una strada diversa dal criterio generale appena spiegato.

Ecco i casi in cui questo avviene.

 

Patti di inversione dell’onere della prova

Sono accordi con cui le parti possono regolare la distribuzione dell’onere della prova tra di loro, modificando quanto previsto normalmente. Si pensi al contratto di fornitura dell’energia elettrica in cui la bolletta si presume sempre corretta salvo che il consumatore dimostri il contrario; qui si inverte quindi il normale onere della prova che attribuisce al creditore l’obbligo di dimostrare la fondatezza del proprio diritto. Tali patti sono tuttavia soggetti a specifiche prescrizioni e limiti;

 

Fatti non contestati

Le parti nel corso del processo hanno un altro onere: quello di contestare le affermazioni dell’altra parte. Quindi di prendere posizione sulle affermazioni dell’altro

E’ estremamente importante questa regola per le conseguenze che ne possono derivare non osservandola: i fatti non contestati si danno come provati.

Dunque se affermo un fatto e l’altra parte non lo contesta è come se lo avessi provato, quindi sono esonerato dal dover dar prova di quel fatto ed il Giudice deve attenersi a quanto da me affermato.

 

Fatti notori

C’è poi un altro caso di fatti che non necessitano di essere dimostrati.

E’ il caso dei cosiddetti fatti notori ossia di quei fatti conosciuti dalla generalità delle persone di media cultura e quelli che rientrano nella comune esperienza che possono essere affermati dalle parti senza bisogno di prova.

Esempi di fatti notori possono essere quei fatti di cronaca di dominio pubblico, le leggi di natura, i fenomeni di inflazione, le conseguenze che possono derivare da una malattia nella generalità dei casi ecc.

Non si considerano tali invece le nozioni tecniche e le valutazioni che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati come, ad esempio, la determinazione del valore di mercato degli immobili.

Spesso assisto imprenditori che hanno problemi di insoluti o problemi nei rapporti contrattuali con clienti o fornitori.

La prima cosa che gli chiedo e di fornirmi la documentazione attestante il rapporto contrattuale e quindi l’origine del credito.

A questa richiesta loro mi esibiscono la fattura.

Ma la fattura non è un contratto!!!! E quindi non costituisce di per sé la prova dell’esistenza del rapporto contrattuale e del credito. Spesso la fattura non basta.

Che cos’è la fattura.

La fattura è il documento fiscale obbligatorio che viene redatto dal venditore, titolare di Partita Iva, per comprovare l’avvenuta cessione di beni o prestazione di servizi e il diritto a riscuoterne il prezzo. Tutti i titolari di Partita Iva devono emettere fattura quando vendono un bene o prestano un servizio, a seconda dell’attività svolta. Ci sono tuttavia alcune esenzioni, per alcune tipologie di venditori (es. commercianti al dettaglio, agricoltori per beni di propria produzione) per i quali, se non è espressamente richiesto dal cliente al momento di effettuazione dell’operazione, si è esonerati dall’obbligo di emettere la fattura. Questi operatori hanno però l’obbligo di rilasciare al cliente altri documenti che servono al controllo fiscale, quali la ricevuta fiscale e lo scontrino fiscale.

La fattura non è un contratto

Si pensa normalmente che la fattura possa valere come prova di un rapporto obbligatorio tra le parti, alla pari di un contratto, tuttavia le cose non stanno proprio così.

La giurisprudenza, in passato, si è più volte espressa sul tema della natura e del valore di prova della fattura commerciale, specificando che essa consiste nella dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti riguardanti un rapporto già costituto, pertanto in caso di contestazione del rapporto tra le parti, la fattura stessa non costituisce un valido elemento di prova delle prestazioni eseguite, ma viene considerata un mero indizio (così si esprime ad esempio la Corte di Cassazione con la sentenza n° 299 del il 12/01/2016).

Se dunque una parte contesta un credito quale risultante da una fattura commerciale, l’altra parte deve fornire al Giudice la prova dell’esatto ammontare del suo credito, dimostrando, quando ad esempio si tratti di merce, l’avvenuta fornitura.

Normalmente la fattura, che contiene la descrizione del materiale fornito, è sottoscritta dal debitore che quel materiale ha ricevuto.

In assenza di contestazione, quindi, il valore indiziario della fattura è trasformato, per così dire, in valore di prova legale del credito.

La natura di atto unilaterale della fattura commerciale impedisce che con la semplice sua trasmissione alla controparte, questa possa ritenersi validamente costituita in mora, occorrendo una formale richiesta di pagamento.

Questo non impedisce però che la fattura possa fondare la richiesta di decreto ingiuntivo di pagamento.

I registri delle fatture possono costituire, ai sensi dell’art. 634 II° comma cpc, idonea prova scritta per la emissione del decreto ingiuntivo, con riferimento non solo ai crediti relativi alla somministrazione di merci ma anche a quelli relativi a prestazioni di servizi.

Con la sentenza n. 11736 del 15 maggio 2018, La Suprema Corte di Cassazione, confermando quanto già asserito dalla giurisprudenza di merito, si è di recente pronunciata sulla validità della fattura quale elemento probatorio in caso di rapporto contrattuale non contestato.

Elemento centrale, più volte ribadito dalla Corte quale condizione necessaria affinché la fattura possa assumere valenza di piena prova, rimane il fatto che il rapporto contrattuale non sia messo in discussione, poiché in caso contrario la valenza probatoria della fattura a priori sarebbe senz’altro da ritenersi esclusa.

Quindi se l’altra parte contesta anche solo minimamente l’origine del credito o semplicemente il suo ammontare, per la controparte che richiede il credito non sarà sufficiente la fattura per dimostrare la fondatezza della sua richiesta.

Recentissimamente, (Cass. civ., sez. II, 21 Ottobre 2019, n. 26801) è stato stabilito che la fattura commerciale costituisce piena prova dell’esistenza di un corrispondente contratto tra le parti ove accettata, anche tacitamente, dal contraente destinatario della prestazione che ne costituisce oggetto.

Con l’annotazione delle fatture passive nei propri registri, parte debitrice ammette l’esistenza del rapporto obbligatorio fondamentale e dunque del proprio debito verso parte ricorrente.

Tale atto presenta, ai sensi dell’art. 2720 c.c., un’efficacia probatoria piena delle dichiarazioni in esso contenute.

 

In altri articoli del blog abbiamo parlato di risoluzione giudiziale, cioè dei casi in cui è il giudice chiamato a giudicare sul caso propostogli dalle parti che, con una sentenza, determina lo scioglimento del contratto.

Ma il contratto si può risolvere anche “di diritto”, cioè senza intervento del giudice ed in tempi rapidi se le parti conoscono e si avvalgono di alcuni rimedi previsti dal legislatore.

Ecco quali sono questi rimedi:

a) diffida ad adempiere (art. 1454)

 

b) clausola risolutiva espressa (art. 1456)

 

c) termine essenziale (art. 1457)

 

d) impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1256)

 

Diffida ad adempiere

La diffida ad adempiere è prevista dall’art. 1456 del codice civile.

E’ questo lo strumento con cui la parte adempiente può intimare all’altra, inadempiente, che provveda ad eseguire le obbligazioni a cui è tenuta in forza del contratto in un congruo termine non inferiore a 15 giorni.

Scaduto il termine il contratto sarà risolto di diritto senza, quindi, ulteriori interventi o decisioni giudiziarie.

In caso di eventuale giudizio, quindi, non sarà necessario chiedere al giudice di risolvere il contratto con la sua sentenza, bensì di prendere atto dell’avvenuta risoluzione in forza del rimedio previsto dall’art. 1456 c.c.

 

Clausola risolutiva espressa

Si tratta per l’appunto di un clausola che le parti inseriscono nel contratto ed è prevista dall’art. 1456 del codice civile.

Con questa clausola le parti possono pattuire che l’inadempimento di una o più obbligazioni determinate faccia conseguire direttamente la risoluzione del contratto.

La risoluzione si verifica effettivamente quando il creditore dichiara all’altra parte di volersi avvalere della clausola.

 

Termine essenziale

Secondo l’art. 1457 del codice civile, se l’obbligazione non è adempiuta nel termine ritenuto essenziale per il creditore, al punto che dopo tale termine la parte non ha più interesse alla prestazione, il contratto è risolto di diritto alla scadenza del termine, a meno che il creditore voglia esigere la prestazione nonostante la scadenza del termine dandone notizia al debitore con comunicazione da inviare entro una tempistica stabilita.

 

Impossibilità sopravvenuta della prestazione

Altro caso in cui il contratto si risolve di diritto è quando la prestazione di una delle parti diventa oggettivamente impossibile.

E’ il caso dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione prevista dall’art. 1256 del codice civile, cioè quando una parte non riesce a compiere la propria prestazione per causa a lei non imputabile (impossibilità oggettiva).

In tal caso la parte impossibilitata è liberata dall’obbligo di adempiere la prestazione, ma non può più chiedere la controprestazione dell’altra parte e deve restituire la prestazione già ricevuta.

 

Prima di considerare il debitore totalmente inadempiente, l’altra parte deve metterlo in mora, cioè inviargli un’intimazione ad adempiere entro un dato termine, solitamente non meno di 15 giorni.

Tale intimazione non è necessaria quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere e quando è scaduto il termine ad adempiere, se la prestazione doveva essere eseguita al domicilio del creditore (come il pagamento di somme di denaro).

 

 

 

 

Se una parte del contratto non adempie alle proprie obbligazioni, l’altra parte, quella adempiente,  cosa può fare per tutelarsi?

Può fare diverse cose:

a) può chiedere l’adempimento del contratto, mantenendo in vita il contratto originario (art. 1453);

b) può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione in presenza dell’inadempimento dell’altra parte, o fino a quando perdura l’inadempimento dell’altra parte, in questo modo il contratto rimane in vita fino a quanto una delle parti non chiede la risoluzione del contratto (art. 1460);

c) può chiedere la risoluzione del contratto per l’inadempimento.

 

Azione di manutenzione

Nel primo caso con l’azione di adempimento, detta anche azione di manutenzione del contratto, si vuole conservare il negozio giuridico e si propone una domanda giudiziale di condanna all’esecuzione delle prestazioni cui è obbligata la parte inadempiente.

In caso di esito vittorioso, l’attore avrà il titolo per ottenere quanto è oggetto dell’obbligazione e il contestuale risarcimento del danno subìto a causa del ritardo nell’adempimento mentre sarà a sua volta tenuto, da un lato, a ricevere la prestazione di controparte e, dall’altro, ad eseguire la prestazione dovuta qualora, ovviamente, non abbia già provveduto ad adempierla.

Presupposti per l’esercizio dell’azione sono, evidentemente:

– la presenza di un contratto a prestazioni corrispettive;

– il ritardo nell’adempimento della prestazione;

– la concreta ed attuale possibilità di adempiere l’obbligazione.

Se, infatti, per effetto del ritardo l’adempimento non fosse più possibile o il contraente avesse perso l’interesse ad ottenerlo, la possibile soluzione sarebbe la risoluzione del contratto, che determinerebbe la cessazione del vincolo contrattuale.

 

Eccezione d’inadempimento

Nei contratti con prestazioni corrispettive, in cui le prestazioni dovute dalle parti sono tra loro connesse al punto che l’una costituisce il corrispettivo dell’altra, come ad esempio nella compravendita, ciascuno dei contraenti può, in virtù dell’art. 1460, rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, a meno che accordi tra le parti o la natura del contratto non suggeriscano diversamente.

Si tratta dell’”eccezione d’inadempimento”, considerato mezzo di autotutela utilizzato soprattutto nella fase esecutiva del contratto qualora non si desideri lo scioglimento del vincolo contrattuale.

Tale rimedio può, tuttavia, essere usato anche in sede processuale per paralizzare la domanda di adempimento o la domanda di risoluzione per inadempimento.

Come evidenziato, l’eccezione d’inadempimento permette alla parte di sospendere l’esecuzione della propria prestazione e quindi sarà utilizzabile sono qualora non sia stata eseguita la propria prestazione.

Ovviamente tale sospensione deve essere fondata. Il rifiuto della prestazione, totale o parziale, deve essere «proporzionale» all’inadempimento e non è possibile opporsi all’esecuzione se il rifiuto è contrario alla buona fede.

 

Risoluzione del contratto

L’ultimo strumento a disposizione del creditore è chiedere al giudice la risoluzione del contratto se il perdurare dell’inadempimento fa perdere la fiducia nell’altro contraente o l’interesse per la sua prestazione.

Vi sono tuttavia dei limiti previsti dall’art. 1453: se è chiesto l’adempimento si può sempre chiedere poi la risoluzione, ma se è stata chiesta prima la risoluzione non è poi più possibile chiedere l’adempimento.

Altro aspetto da considerare è che per aversi risoluzione è necessario l’elemento della colpa in capo al debitore, che costituisce anche presupposto per poter richiedere il risarcimento del danno subito, sempre che si sia effettivamente verificato.

Comunque, se l’inadempimento è dovuto in parte anche ad una responsabilità del creditore, il risarcimento del danno sarà diminuito proporzionalmente.

Perché il contratto possa risolversi è anche necessario che l’inadempimento sia rilevante e a tal proposito l’art. 1455 c.c. dispone che: “il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra”.

Qualora ricorrano tutti i presupposti e la richiesta abbia esito positivo, la sentenza eliminerà il vincolo contrattuale, con efficacia retroattiva tra le parti, obbligandole a restituire quanto hanno ricevuto. Tale effetto non si verifica nel caso di risoluzione dei contratti ad esecuzione continuata o periodica, per cui restano salve le prestazioni già eseguite.

In ogni caso la risoluzione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi.

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